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Il cammino: gesto singolo, plurale e politico

Con ritardo imperdonabile per i canoni lombardi, ecco qui le mie memorie della due giorni in Val Grande. La mia prima uscita con Ape Milano. Servono un paio di motivazioni per giustificare la consegna del mio racconto con un mese di ritardo: un pervasivo senso d’ansia che la sollecitazione di un certo membro del gruppo ha innestato, quando mi ha proposto di scrivere il racconto dell’uscita (grazie Alessandro), ma, soprattutto, il grumo di sensazioni che fatico a mettere in fila con le parole. Perché? 

Perché la due giorni è stata intensa e bellissima per me romana, trasferita da poco in Brianza, che quando è entrata per la prima volta al Piano Terra aveva nel portafogli la tessera di Ape Roma, negli occhi e nelle gambe i panorami degli Appennini, e nel cuore l’assenza di una persona che mi ha insegnato in silenzio la montagna.

E poi, questo è un periodo particolare: c’è il conflitto in Palestina, l’invasione israeliana di Gaza, centinaia di migliaia di persone che camminano solo per scappare, ridotte ad animali in gabbia nella loro propria lingua di terra. Mentre noi, escursionisti proletari e comunque privilegiati camminatori, proviamo rabbia ma abbiamo a disposizione la Val Grande, per riscoprire insieme un pezzo di resistenza che fu. 

Allora mi domando: che senso ha il nostro andare apeino oggi? E cosa ci può raccontare una valle rimasta disabitata dopo un furioso rastrellamento nazista e lo spopolamento degli anni ’60?  

Comunque… sono le 7.15 di mattina, è un sabato di novembre, siamo in 24, siamo pronti a partire per ricalcare il percorso proposto da Zuma. 

Il nostro punto di partenza è Rovegro, piccola frazione appoggiata sopra il lago Maggiore, che ci lasciamo alle spalle attraversando uno scenografico ponte (non) romano sul torrente San Bernardino. Da qui in poi, seguiamo il riverbero del sole sull’acqua, salendo per una mulattiera all’ombra di faggi, castagni e ailanto, dove alle nostre chiacchiere si alternano piccole cappelle votive. Poco dopo, il sentiero si allarga e fa spazio agli unici abeti della zona, di fronte al santuario di Inoca. Qui scopriamo che Oca vuol dire acqua e che ogni abete è stato piantato per ricordare un membro diverso di questa comunità montana, ucciso durante il rastrellamento nazi-fascista del 1944. 

Il torrente si allontana, e noi continuiamo la salita fino all’ostello di Cicogna, dove ci accoglie Andrea, un novarese trasferitosi qualche anno fa, e che ha preso in gestione l’ostello, ma non sa fino a quando perché la burocrazia taglia la volontà, anche qui. Mentre siamo seduti sulla balconata naturale dell’ostello e mangiamo il nostro panino, una raffica improvvisa di vento alza le foglie secche di castagni come se fossero uno stormo di uccelli pronti a migrare.

Due parole su Cicogna: minuscola “capitale” della Val Grande, in cui il rapporto uomo-gatto è di 1:10 e Piero ci ricorda di chiudere le porte per non ritrovarceli nel letto. Sono così grossi che fatico a riconoscere un cane tra due felini. C’è anche una chiesetta, e una signora che la apre e chiude ogni  giorno, accompagnata non da un prete ma dalla sua cagnolina presa in un canile di Avellino. 

Nel pomeriggio qualcuno di noi passeggia su un tappeto rosso di foglie, alla ricerca degli ultimi ricci di castagne. L’appuntamento vero però è con Abo prima di cena, per il racconto della nascita di Ape, dello spirito delle origini, di quando l’associazione è stata proibita dalle leggi fasciste, della sua sopravvivenza anonima e della sua riscoperta, e poi di un manipolo di partigiani che si rifugiarono in Val Grande da Milano e dal lecchese, del rastrellamento e dell’eccidio del giugno del ’44. E mentre lui dà nuova voce allo spirito partigiano e alla natura di uomini e Alpi, io ripenso ai luoghi in cui sono cresciuta e a come risuonano le sue parole sui ricordi della mia terra. Ripenso alle due casse di munizioni e al barile della Wehrmarcht del 1941 ritrovate in cantina quest’estate, quando la casa dei miei nonni in Sabina era stata occupata dagli uomini di Kesserling, che voleva bloccare tutti gli accessi verso Roma dalla Salaria. Penso a mio nonno, cacciato da casa sua per fare spazio a una mensa militare e a mio papà bambino, che ogni tanto ci giocava con quei soldati tedeschi, mentre qualche chilometro più in là la Brigata d’Ercole-Stalin si rifugiava sul monte Tancia. E poi penso che forse la memoria serve di più a noi vivi, per ricordarci pezzi di identità.

Comunque, la serata scorre veloce, tra birra, polenta taragna, i numeri in dialetto di Zuma, e alle 8 del mattino siamo pronti per affrontare il lungo anello di Velina. Pioviccica, c’è bruma, non ci sono gatti. I piedi scivolano ogni tanto tra foglie umide e rocce lisce, il sentiero segue le rughe dei crinali, più in alto la pioggia diventa neve che sembra una spolverata di zucchero a velo sulle vette. Camminiamo e parliamo. Andiamo e attraversiamo piccoli guadi, passaggetti delicati protetti da catene, ruderi di borghi ormai abbandonati. Ci lasciamo alle spalle l’alpe Montuzzo, Crosane, i ruderi di Uccigiola. Conosciamo Piero, il solo abitante, custode e gestore del bivacco Velina, che ci racconta di come a fatica cura ancora i 4 piccoli borghi e il bosco. Proseguiamo e superiamo l’alpe Scellina e Curt Pirela. Attraversato il ponte Velina, i castagni lasciano il posto ai faggi, ma il rumore dell’acqua e la sensazione che la natura stia inghiottendo mulattiere, alpeggi e antiche borgate piene di storia umana non ci abbandona mai.

Più avanti, la vista di una vecchia teleferica in disuso anticipa il ritorno alla strada asfaltata. A Bignugno riprendiamo il bosco e torniamo alle macchine camminando, letteralmente, sul torrente San Bernardino.

Cosa lasciano otto ore di totale immersione in Val Grande? Di certo, il fascino solitario della natura padrona che richiede un vincolo monogamo a chi decide di restare, e anche la consapevolezza che il cammino sia un gesto insieme singolo, plurale, politico. Dobbiamo e vogliamo ripercorrere il nostro passato di resistenza. Ma come dargli un nuovo senso oggi, che la guerra si è spostata più in là e forse, gli occupanti involontari siamo anche noi? A me l’unica parola che viene in mente è la ri-esistenza, collettiva e partecipata.   

P.s. Aggiungo, a cortese richiesta, il punto di vista di un’apeina romana su Ape Milano. C’è tanta partecipazione, c’è energia, c’è volontà di incidere con passi e parole. Ma, sopra ogni cosa, c’è la fortuna di fare parte di un’alveare: possiamo anche spostarci da una città all’altra, ma siamo in una comunità che ha radici e valori condivisi. 

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