Lettera aperta: A chi ama la montagna, a chi si prende cura.

Si va in montagna per essere liberi, per scuotersi dalle spalle tutte le catene che la convivenza sociale impone, per non inciampare ogni due passi in imposizioni e proibizioni.
Si va in montagna anche per sottrarsi a norme ammuffite,
per sbizzarrirsi una buona volta e immagazzinare nuove energie

Tita Piaz

Lettera aperta sull’anno alle nostre spalle e su quello che verrà

Un anno è passato dall’ingresso della pandemia nelle nostre vite. Un virus inatteso e la gestione inadeguata delle sue conseguenze  hanno investito le nostre esistenze esacerbando le disuguaglianze sociali e di genere che segnano una comunità sempre più provata da incertezza, crisi economica e distanziamento sociale. 

Abbiamo visto tutto, ascoltato molto, approvato poco delle politiche pubbliche messe in campo. Proviamo oggi, nel nostro piccolo, a prendere parola.

Qualche premessa

L’A.P.E. è un’associazione che promuove l’escursionismo popolare, nel rispetto della terra e di chi muove i propri passi sui suoi declivi. Nonostante l’attività all’aria aperta  generi un distanziamento naturale prima che sanitario, come chiunque abbiamo conosciuto un continuo e a tratti indecifrabile “stop and go” delle attività pubbliche. 

A un anno dall’inizio di tutto questo è tempo di condividere un contributo che speriamo risulterà utile e stimolante a chi ha strumenti e forza di volontà per premere un cambiamento non più rinviabile. Questi appunti nascono dalla nostra piccola strategia di sopravvivenza e attivazione, dentro e nonostante, la crisi presente. Non usiamo appositamente il termine emergenza che, per definizione,  identifica un momento di eccezionalità con un inizio ed una fine e che, in nessun caso, può giustificare, sine die, la sospensione della vita civile e associativa di un Paese.

Porremo l’accento sui territori e le problematiche che ci riguardano da vicino, non perché siano più o meno importanti di tutti gli altri ingranaggi che tengono viva e sana una comunità, ma perché sui primi abbiamo argomenti e proposte specifiche e, su questo stesso piano, abbiamo sofferto l’assenza di altre voci che sarebbe invece importante ascoltare.

Indeterminatezza e disinteresse

Riassumere la mole di DPCM, ordinanze regionali, regolamenti locali che hanno frazionato lo stivale in zone cromatiche è oltre le nostre possibilità. Ci viene in soccorso un importante  carteggio  tra il C.A.I. e il governo nel gennaio 2021. Ai dubbi interpretativi del Club Alpino, circa le possibilità di praticare attività all’aria aperta in zona arancione, così rispondeva l’allora governo Conte II:

In area gialla l’attività motoria e quella sportiva hanno solo il limite del confine regionale o della Provincia autonoma. In area arancione è consentita attività sportiva in altro comune, purché nella stessa Regione o Provincia autonoma, alla tassativa condizione che difettino, nel proprio comune, le condizioni perché l’attività possa compiersi. In area rossa l’attività sportiva è limitata al solo territorio comunale.

Una domanda si rincorreva di bocca in bocca, di chat in chat, di articolo in articolo: cosa si intende per attività sportiva? Lo stesso governo aveva risposto al quesito non più di tre mesi prima: trekking, escursionismo, alpinismo, scialpinismo, sci di fondo e ciaspole sono a tutti gli effetti attività sportive. Mentre non lo sono gite e passeggiate. Dopodiché più nulla. .

Nei giorni successivi e fin’ora l’argomento è prima scomparso dai quotidiani elenchi delle attività possibili, quindi dalle nuove definizioni di “zona arancione rafforzata”. L’assenza di certezze ha determinato nella migliore delle ipotesi la rinuncia, nella peggiore  localismi repressivi e interpretazioni acrobatiche delle attività lecite e non. Al contrario questo primo chiarimento avrebbe dovuto generare un ventaglio di precisazioni utili a chi, dopo una settimana alle prese con lavori smart, dad, cura parentale e tassi di riempimento record delle metropolitane milanesi (per stare al nostro vissuto) desiderasse condurre un’attività en plein air in sicurezza, nel rispetto di sé, del momento, e dell’altra/o.

Tre pesi e tre misure

L’avvicinamento alla montagna, per chi non abiti in comuni montani e non sia un agonista, si è fatto letteralmente in tre: la montagna della caccia “sportiva”, quella degli impianti a fune, e… tutti gli altri. Non lo scriviamo per  provocazione: mentre l’attività venatoria è stata sdoganata  anche al fuori della “stagione” e una pioggia di ristori andrà a tutelare alcuni impianti e professioni in quota, nulla è stato fatto per chi si difende dalla pandemia dedicando tempo e passione ad un’attività di promozione sociale in ambiente naturale. Nella stagione 2019/2020 ventisette persone hanno perso la vita e sessantasette sono rimaste ferite a causa di questo bislacco “sport”. Nello stesso arco di tempo la quasi totalità degli impianti a fune al di sotto dei 1800 metri slm non sarebbe entrato in funzione senza l’insostenibile consuetudine dell’innevamento artificiale, o non è entrato affatto in funzione. La curva degli incidenti causati dalle armi da fuoco, la crisi climatica e la pandemia stessa non hanno distolto la politica istituzionale dal dedicare  tempo alle lobby di arcicacciatori e impianti di risalita con buona pace delle/i precari della neve, della ricettività, della ristorazione… dimenticati nei dintorni delle stesse funivie. Perché a chi pratica liberamente le discipline e la passione per i monti non un pensiero viene dedicato? A partire dalla stagione estiva 2020 si sarebbe potuto fare molto per garantire accessibilità alle terre alte, sostenere le/i rifugisti piegati dal numero chiuso, garantire distanziamento e l’esplorazione di circuiti differenti e mete non convenzionali. Ad esempio l’introduzione, a titolo sperimentale, della libertà di attendamento nei pressi dei rifugi e in bassa quota offrirebbe un’occasione unica di avvicinamento all’ambiente montano. Dove oggi regnano regionalismi confusivi e normative proibizioniste si sarebbe potuto aprire una spazio per una pedagogia della montagna sovente precluso (non parliamo certo di quote alpine) a chi non accede a corsi o experience commerciali. Con l’incedere dell’autunno e della seconda ondata invece nessuna innovazione è stata introdotta. Il grande gioco della prenotazione e dell’insostenibile asporto sono stati sdoganati a lungo termine, mentre diversi bivacchi venivano catenati e tante comunità montane scontavano un risveglio plumbeo dalla monocultura turistica.

I benefici del distanziamento naturale

Ci siamo tenuti sin qui a due metri per poter continuare ad essere noi, non per ritrovarci più soli, chiusi dentro l’illogica del coprifuoco e dell’inclusione differenziale.

La quasi totalità delle discipline di montagna possono essere svolte senza particolari accortezze in forma distanziata e apportano benefici che trascendono la passione per l’outdoor, rompendo l’isolamento casalingo, la stanzialità prolungata, l’assenza di esperienze di stacco dal quotidiano tran tran casa-scuola-lavoro. Quali sono le conseguenze pratiche di questa lettura? La nostra non è una richiesta di ascolto, l’ennesima (ma non per questo ingiustificata) di una “categoria”, piuttosto rappresenta un appello a interpretare le attività all’aria aperta come elemento organico alla strategia di superamento della crisi sanitaria. Lo sport e l’attività fisica devono essere considerati parti integranti in una prospettiva di cura, contrasto alla disgregazione sociale, promozione del benessere dei corpi e degli animi provati dalla pandemia, conoscenza di sé, costruzione di fiducia nell’agire collettivo, condivisione di luoghi e saperi. L’agognato new normal non dovrà recuperare gli elementi asfittici di un presente inospitale, né dovrà esprimere puramente nuove regole.

E’  tempo di fare comunità in un rapporto più sano con il tempo di vita, promuovendo la salubrità dell’ambiente e l’unicità dei biomi appenninici e alpini. Questa è dagli inizi del Novecento la scommessa  che ha dato i natali ad APE e crediamo offra un indirizzo assolutamente attuale per una civiltà e un’iniziativa inclusiva, accessibile e solidale.

Luci e ombre

A Livigno si parla di investimenti per cento milioni per l’ampliamento del comprensorio sciistico. La previsione per il bypass tra i comprensori di Breuil-Cervinia, Valtournenche e Zermatt, nel tentativo disperato di accedere a quote sempre più alte per mezzo del turismo intervallivo, sfiora quota settanta milioni. A Malcesine si fa sempre più prossima la costruzione di una croce mastodontica (18 metri!) in vetta al Monte Baldo, mentre la giunta lombarda insiste nel desiderio emiratino di aprire uno ski-dome ad Arese e un grande punto interrogativo permane sulle sorti dell’Alpe Devero, della Val di Mello, del Corno alle scale e del Terminillo.

Tutto male quindi? Non proprio. Non si è capito di preciso dove vadano a precipitare la recente attestazione dell’Alpinismo “bene immateriale dell’umanità” o la dichiarazione delle Dolomiti, patrimonio dell’Unesco. Eppure i segnali di attivazione e riscatto non sono affatto mancati in questi mesi: la rimozione dei ruderi che punteggiano la Marmolada si avvicina (anche se non sono scongiurati nuovi impianti) e il neonato Comitato Salviamo il Magnodeno ha raccolto in una manciata di giorni trentamila firme per scongiurare l’apertura di nuove cave di calce nelle prealpi lecchesi per un totale di 2,8 milioni di metri cubi. Un progetto di escavazione capace di concentrare un numero, non comune, di rischi per l’ambiente: immane produzione di CO2, rischio idrogeologico e inquinamento acustico su tutti. Si tratta di una piccola battaglia contro l’estrattivismo sorta silenziosamente a due passi da casa, cui fa eco il recentissimo sequestro per smaltimento illecito dei fanghi della cava di Arnetola, nel cuore delle Apuane.

Anche il censimento delle nocività lanciato dalla campagna Salviamo i fiumi ha incontrato grande interesse. Le acque, come i monti, sono sotto scacco non solo per via di captazioni e sversamenti legali e illegali, ma anche per la riduzione superficiale dell’1% l’anno dei 903 ghiacciai ancora presenti sul versante italiano delle Alpi. Neve e ghiacciai forniscono oggi il 45% dell’acqua che ci disseta, ma un quinto di questi ghiacciai è destinato all’estinzione in un arco di tempo non superiore ai vent’anni. Le conseguenze sulla stabilità dei versanti non sono chiare né rassicuranti. Su questo tema, centrale nella nuova edizione del dossier NeveDiversa di Legambiente, torna anche Eurac Research, con un’analisi resa possibile da duemila stazioni di rilevazione: se sotto i mille metri di altitudine la riduzione del manto nevoso sfiora il 50%, anche sopra quota duemila la diminuzione della copertura viaggia tra il 20 e il 35%. Anche per quel che concerne il profilo temporale la contrazione della stagione della neve è conclamata e generalizzata, le previsioni più severe parlano di possibile estinzione dei ghiacciai alpini entro la fine del secolo.

L’aggravante olimpica

In questa cornice climatica guardiamo alla candidatura e all’ottenimento (in una gara a due sole pretendenti) delle Olimpiadi invernali 2026, da parte del ticket Milano-Cortina. I giochi olimpici della sostenibilità abbracceranno l’intero arco alpino, col loro corredo di micro bacini idrici a garanzia degli impianti di innevamento artificiale, infrastrutture viarie e ferroviarie, accoglienza, impianti, palazzetti e marketing territoriale. I costi dell’impresa, spacciata come low-cost, hanno già sfiorato quota un miliardo a cinque anni dalla loro realizzazione, e le previsioni per le stagioni a venire non sono rosee. Uno sguardo ai giochi olimpici degli ultimi quarant’anni è sufficiente per rispondere alla seguente domanda: in quante occasioni la previsione di spesa è stata smentita da costi supplementari? Nel 100% delle edizioni.

Senza scomodare la ciclopica testimonianza di Sochi, le olimpiadi torinesi di quindici anni fa  restituiscono con limpidezza l’irreversibilità della legacy di abbandono e indebitamento pubblico dei piccoli giochi. Sotto il profilo dell’impatto ambientale non possiamo non volgere  lo sguardo ai più contenuti, ma anche recentissimi mondiali di sci di Cortina. Le immagini provenienti dalla conca dolomitica fotografano con chiarezza l’eredità ecologica che pista Rumerlo, Scoiattolo cinque torri, bypass Colfiere, consegnano al piede della Tofana di mezzo. La linearità geometrica degli impianti di velocità racconta molte cose, quello di cui non parla è il rispetto per un ecosistema fragile come quello alpino.

Recovery o sbancamento?

Ieri ristori, oggi sostegni: nella sostanza sono settecento i milioni stanziati a fondo perduto per attività e lavoratori impossibilitati dall’emergenza sanitaria. Soddisfatti maestri di sci ed esercenti impianti a fune, incredule le tante e tanti precari dimenticati dal prevedibile ritorno ad una normalità esausta. La transizione ecologica affrescata dall’omonimo Ministero, rappresenta uno dei tre assi del recovery fund e destina sessantacinque miliardi (su base triennale) anzitutto ad asfalto e ferrovie, ma anche a termovalorizzatori e altre amenità novecentesche, non esattamente resilienti. Sono queste le soluzioni di cui abbiamo bisogno? Sono soluzioni conviviali o a loro volta problematiche, sono risposte che si rivolgono a molti o sono palliativi notiziali di breve respiro? Sono domande che non si lavano nel tempo, pur dilatato, di una campagna vaccinale.

All’interno di questa rassegna di nocività e buone pratiche di resistenza, una menzione speciale (per le dimensioni e la temerarietà della proposta) merita il piano promosso da Coldiretti, Eni, Enel, Terna e Cassa Depositi e Prestiti. Il sogno di edificare mille (!) dighe attraverso la dorsale alpina non poteva che provenire da un bouquet di aziende ed enti protagonisti di alcune tra le più martellanti campagne sulla riconversione green che affollano manifesti pubblicitari, mezzi pubblici, reclame televisive. Logica conseguenza di questa opzione fossile è che il suo contenitore, qui i fantasisti della comunicazione hanno dato il meglio di sé, sia il Piano nazionale di ripresa e resilienza. In concreto parliamo di un progetto da 1,8 miliardi “per le terre alte” che ha già visto soggetti più istituzionali e blasonati di noi esprimere tutta la contrarietà possibile alla regimentazione di acque e territori in chiave di devastazione e saccheggio degli stessi. Non è tra le nostre exit-strategy da questa impresa faraonica e distopica il ricorso alla metanizzazione, perorato invece da altre grandi associazioni, ma è bene sapere che la proposta è sul tavolo dell’attuale governo e non è detto che gli anticorpi in circolo siano sufficienti a scongiurarne una parziale concretizzazione. Volendo concentrarci oggi sugli elementi di convergenza con altre soggettività critiche, non sarà certo una campagna dal sapore di boom economico ad accompagnare la produzione di soluzioni desiderabili per tutte e tutti.

Il nodo dei cittadini in montagna

Dal nostro particolare osservatorio milanese e metropolitano in questi anni abbiamo assistito alla cacciata di custodi “storici” dai loro rifugi, per fare spazio ad approcci imprenditoriali fatti di ristorazione gourmet, eventi esclusivi, aperitivi in quota e, nei casi peggiori, cyclette sulle terrazze dei rifugi. Il combinato dell’apertura di impianti come Skyway Monte Bianco e la diffusione di trasmissioni televisive nelle quali gente di spettacolo appare in grado di cimentarsi con l’alta quota, ha favorito “la moda della montagna” con il rischio di riprodurre nelle delicate terre montane dinamiche di consumo, spreco e mondanità veloci e distratte. Crediamo dunque imprescindibile oggi, da escursionisti milanesi e metropolitani, porre pubblicamente l’attenzione sulle attese e sui comportamenti dei cittadini che si avvicinano alla montagna e su come questi possano condizionarne i territori, la vita e l’offerta di servizi. D’altra parte la vocazione popolare e accessibile di APE ci mette in guardia da facili risposte elitarie ed esclusive.

Vanno invece ragionate e messe in pratica forme di informazione, sensibilizzazione ed educazione alla montagna che, a partire dalle strade cittadine, ci conducano a calcare i sentieri con maggiore consapevolezza e convinti, come l’antropologo Annibale Salsa nel suo saggio “I paesaggi delle Alpi”,  che solo una prassi responsabile, attenta all’uso delle risorse, cosciente del valore del limite, “fondata sul senso di appartenenza e sulla partecipazione e non del consumo, sia l’unica strada per attraversare uno spazio fragile come quello alpino senza distruggerlo, permettendo a chi lo abita di continuare a farlo”. 

La perdita più grande, sia per i residenti nella montagna alpina che per i suoi frequentatori più sensibili, rischia di essere quella di trovarsi al cospetto di uno scenario muto, fatto di cose anonime, museificate ed alienanti“. Temi questi su cui abbiamo avuto modo di ragionare e confrontarci in queste mesi e che dovranno fare da sfondo ad ogni nostra azione nei prossimi mesi ed anni.

Come ci siamo mosse/i

Già ma cosa avete fatto in questi mesi? Al di là dello scontato e sofferto stop alle attività pubbliche (e non) nei periodi di zona rossa, quando possibile abbiamo tenuto fede al programma delle gite sociali e sperimentato diversi strumenti di garanzia per le/i partecipanti.

Per cominciare abbiamo messo un tetto di partecipazione di 15/20 persone a tutte le nostre uscite, che come sempre sono rimaste gratuite e organizzate convivialmente.

In seconda battuta abbiamo promosso e calendarizzato anche per i mesi a venire diverse gite no oil, che hanno permesso a chi non fosse automunito di partecipare, ed a tutti di sprecare meno benzina, non facendo muovere ossessivamente automezzi semivuoti per le provinciali delle prealpi lombarde. Quindi abbiamo attivato un percorso di appuntamenti pubblici online e messo in cantiere diversi progetti ben tenuti nel cassetto dei desideri.

Ci siamo impegnati per l’apertura di una piccola biblioteca apeina, l’attivazione di un podcast mensile, la conferma dei due incontri intersezionali in versione digitale, i “cento libri per i più piccoli” ed altre attività oggi in produzione. In ultimo abbiamo usato i nostri canali comunicativi (web, social, le vetrine di Piano Terra, la newsletter) per mantenere informata e partecipe la comunità delle/i nostri soci. Può questo sopperire anche solo in minima parte al vuoto di politiche pubbliche e chiarezza? Nemmeno per sogno, semplicemente non siamo mai rimasti a guardare.

Non ci siamo fermati, eppure ora più che mai è tempo di metterci in cammino. Questo è il tempo di restituire legittimità alla viandanza e alla libertà di movimento di nativi e migranti. È tempo di uno sguardo più severo sull’ubicazione dei parchi eolici, sulla pratica dell’eliski e lo sbancamento dei monti. È tempo per il superamento della vocazione turistica concentrazionaria e stagionale ed è tempo di minare la subordinazione delle terre interne agli obiettivi finanziari e agli immaginari estetizzanti dello spazio urbano. È tempo di tutelare la biodiversità, per arginare con più convinzione la crisi climatica che incombe. La nostra sensibilità ci porta a dire tanti NO e a fare altrettante proposte che tracimano l’atteso cambio di passo delle politiche pubbliche

.Cento anni fa, quanto l’APE nacque, fu coniato il motto Sempre più in alto per la nuova umanità. Oggi quel precetto risuona antico e insieme attuale alle nostre orecchie. Procediamo in direzione ostinata e tortuosa, tra i saliscendi dell’autorganizzazione e dell’iniziativa popolare.

Associazione Proletaria Escursionisti – sezione di Milano

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Sempre più in alto
per una nuova umanità!

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