Scarpe rotte (eppur bisogna andar…)
L’ultimo giorno di agosto porta con sé una certa malinconia. Del tipo che vorresti fosse lunghissimo e che facesse lo sgambetto all’inesorabile primo di settembre. L’ultimo giorno di agosto lo abbiamo onorato con una gita iniziata con le prime luci dell’alba e finita ben più tardi del tramonto.
La sveglia suona alle cinque, chissà se le mie gambe funzioneranno ancora: ci attendono almeno 8 ore di cammino, 15 km e 1.500 metri di dislivello in Val Masino (Val Porcellizzo, per la precisione).
Il viaggio in macchina ci culla ancora un po’ fino a destinazione; alle 8.30 gli zaini sono in spalla. Si parte dai Bagni di Masino: le terme – antiche oltre cinque secoli – sono chiuse da anni. Vederle solitarie e abbandonate ci lascia un po’ di amaro in bocca, ma forse è meglio così, altrimenti sai che tentazione. La montagna vuole mettere a dura prova la nostra determinazione e quindi, di lì a pochi metri, ci propone cascate e torrenti di acqua trasparente che ci incantano, solo per un istante. Qualcuno di noi è col pensiero già in acqua, ma il valoroso gruppo decide democraticamente di non farsi distrarre e proseguire il cammino. Il paesaggio che si apre davanti ai nostri occhi è uno spettacolo di colori e la valle sorride divertita al nostro passaggio.
La prima tappa è il rifugio Gianetti, dove ci fermeremo solo per un rapido pranzo al sacco. Non c’è tempo da perdere, la giornata deve regalarci parecchie emozioni, di cui ancora siamo ignari. Manca poco al nostro primo check point quando Silvia nota un leggero scollamento delle suole dei suoi scarponi. Poco male, un giro di nastro americano al rifugio e si prosegue. Rifocillati e con il nastro giallo fosforescente ben posizionato, partiamo quindi alla volta del famoso Passo del Barbacan, che attraverseremo prima di iniziare la discesa. Per un po’ ci fa compagnia un adorabile gregge di pecore con agnellini al seguito. Tra una pecorella e l’altra, altri due o tre giri di scotch alle scarpe. L’aria è frizzantina e la vista mozzafiato mentre ci destreggiamo tra le corde e le catene che permettono di attraversare il Passo. Penso che questa sia la mia gita preferita.
Nel frattempo, la stoica Silvia sta ormai scalando la montagna con tre colori diversi di scotch sugli scarponi. Qualcuno, però, sembra essere stato più sfortunato di lei: abbandonata oltre il Passo c’è la suola di una scarpa. Ci scherziamo un po’ su prima di scoprire che appartiene a Francesco, altro membro del nostro intrepido gruppo, che non si è accorto di nulla e prosegue la sua discesa in tranquillità. Le suole delle scarpe sono sopravvalutate.
Ci sembra di essere ormai dei veri eroi quando raggiungiamo il rifugio Omio e ordiniamo una meritata birretta, ma l’avventura non è finita. Ancora un paio d’ore di cammino ci separano dal parcheggio e il sole inizia lentamente a scomparire dietro le montagne. Ottimisti iniziamo la discesa, ma stanchezza e scarpe rotte non sono dalla nostra parte. Il sole è ormai tramontato e ci troviamo ben presto nel buio notturno e silenzioso del bosco, mentre il sentiero davanti a noi sembra non finire mai. Ci illudiamo che ogni curva sia l’ultima e ogni tanto controlliamo le mappe, secondo le quali manca sempre mezz’ora. Forse siamo finiti in un loop temporale, ma a questo punto è questione di sopravvivenza. Scarpe rotte, eppur bisogna andar...
Alla fine dei 30 minuti più lunghi della nostra vita arriva davvero l’ultima curva, e oltre il bosco fitto si apre sopra di noi un cielo pieno di stelle. Sono ormai passate le undici e la macchina parcheggiata è un miraggio nel deserto, la terra all’orizzonte per i naufraghi. Nel viaggio verso casa pensiamo a come onorare le scarpe rotte di Silvia, magari con un catartico falò. All’una di notte si conclude la nostra gita nel punto in cui era iniziata circa 20 ore prima. 31 agosto sei stato memorabile, ma adesso siamo pronti per il primo di settembre.
Elena, per APE Milano
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